domenica 7 febbraio 2010

Pasta e fantasia

Di buon mattino, sotto una luce gialla e calda, nel negozio – che per quantità, varietà e per i colori sembrava un bazar – cominciavano a entrare i primi clienti. In una busta, un bucatino appena sveglio, si dimenava per stiracchiarsi e un vocìo cominciava a salire dalle altre buste trasparenti.
Un ‘buongiorno’ corale s’era alzato e, dopo un rumore di sfregamento quasi impercettibile, tornò la calma fino a quando non ci fu il primo commento della giornata: «Sembra iniziata ‘na bella giornata de sole.»
Dovete sapere che, dove c’e il nostro negozio esclusivo, il bucatino la fa da padrone. Il suo modo di fare baldanzoso e spesso spocchioso innesca lunghi dibattiti che, al confronto, le tribune politiche sembrano uno scambio di battute fra amici al bar. E, sempre per la stessa ragione, si è presa l’abitudine di parlare la stessa ‘lingua’ del ciarliero bucatino perché capitolino.
Questa sentita superiorità scaturisce dalla convinzione che in nessun tipo di pasta c’è il miglior condimento esistente al mondo che è il sugo all’amatriciana, l’intingolo più buono e saporito che ci sia. Una convinzione da rispettare, ma…
«All’amatriciana è la morte vostra…» dissero gli spaghetti con ironia.
«A li mortacci vostra, ‘nvece» replicò il bucatino toccandosi «E me lo dovevi puro aricordà? Pe’ colpa vostra semo tutti imparentati, semo tutti ‘na pasta. Ma volemo scherzà?»
«Ma che stai a dì. La vera amatriciana se fa co’ li spaghetti. Nun lo sapevi? E poi, ‘ndo’ vai vai, nun è mai tarquale» e, ripreso fiato, continuò: «Pe’ preparà gli spaghetti all'amatriciana devi tajà er guanciale a pezzettini – me raccomanno je devi levà la cotica – mettelo in una tièlla a frigge co’ l'òjo e peperoncino tritato, co’ 'n tantinello de vino bianco e lo lasci svaporà. Quando er vino è svaporato, scoli e cacci il guanciale dalla tièlla pe’ mettelo da parte ar caldo. Se mettono li pelati nella tièlla der sughetto de cottura der guanciale. Se còce er pommidòro nel mentre se coceno li spaghetti; scolateli e sbuzzicateli dritto dritto nella tièlla, si aggiugne er guanciale, e facennoli sartà ‘n po’ pe’ misticà bène er tutto. ‘Na grattata de pepe nero e abbondante pecorino. E bon’appetito.»
Al che si risentì il rigatone: «Perché quello mio alla vaccinara de ‘na vorta, nun era bòno? Stamo tutti aspettà che se sdogana.»
Ovviamente gli spaghetti non si fecero reggere: «Guarda che semo noi che la famo da padroni.»
«E a noi andove ce mettete?» risposero tutt’insieme le fettuccine «Ve damo pure er primato mondiale ma dopo gli spaghetti venimo noi. Noi semo le più famose! Voi, invece, appartenete ar tipo generico de’ li maccheroni.»
«Fateve ‘na cantata e ‘na sonata co’ li cuggini alla chitàra» si rifece vivo il bucatino con gli spaghetti.
«Eh eh, n’esaggeramo, nun la sparamo grossa. Qua er primato mondiale ce l’avémo noi. In tutto er monno conoscono li ravioli» venne la voce dal reparto di quelli… a panza piena.
«Pure noi semo internazionali» fece la lasagna.
«Panza mia fatte capanna, dicono l’ommini» fece eco il bucatino con tono sincero pensando di dire chissà quale verità.
«Me sa che qua stamo a esaggerà. Semo tutte bòne pe’ l’ommini. Noi co’ ‘a cacciaggione che c’annamo male?» fecero in coro le pappardelle.
Gli gnocchi non ce la fecero a stare zitti: «Aho, mo c’avete stufato. Quanno mai a voi è stato dedicato ‘n giorno? Nella città sempitèrna er giovedì ce semo solo noi. E’ d’obbligo e nun se transigge!»
«…che ve fanno la festa er giovedì, hai voluto di’?» fu la risposta spavalda e canzonatoria del solito. Quest’ultimo, s’è capito, ne aveva per tutti. In attesa di scelte da parte della clientela, per combattere la noia – direi più per abitudine – si divertiva a sfottere, a provocare la pasta che... dorme.
E fu la volta di…
«Anvedi quelle che conoscono er… clarinetto. Annateve a nasconne, che se ve vede la boncostume…» ce l’aveva con le chitarrine che ritennero di non rispondere e si rigirarono dall’altra parte.
Non contento, se la prese con i capellini perché erano buoni solo per gli ammalati e gli anziani; con i vermicelli, poi: «Ma come ve và. Ma indove annate co’ ‘sto nome?»
«Degustibusse» gli rispose qualcuno.
Non si salvarono le bavette: «Me sembrate quelle che stanno sempre co’ la voja ar gargarozzo» nè i ditalini che prendeva in giro giocando sugli equivoci e ammiccamenti. Giocava molto sui doppi sensi.
«Ma fatte l’affari tua, pensa alle corna tua!» urlò qualcuno che non si sottometteva a quelle prepotenze – per farlo desistere. E altri presero coraggio: «’Sto ciarlone» e da un’altra parte: «A fregnacciarooo.»
Ma quella faccia tosta non desisteva e non provava vergogna: «So’ libbero de di’ quello che me pare. Guarda andove sto ‘n ‘mezzo?» e, poco dopo, continuò la carrellata delle sue critiche e dei suoi sfottò.
«C’avemo pure li terroni…» Lo disse senza cattiveria ma solo per il gusto di provocare. E infatti la provocazione ebbe effetto e la risposta non si fece attendere: «Ma statte zitto. Come ve chiammeno a voi, …oni e …oni. E c’è la rima!»
Ormai sembrava una guerra aperta su un palcoscenico teatrale.
«Ah siiiì, e come la mettemo co’ ‘sti maltagliati, malfatti e mezzemaniche. Che bella compagnia!» e proseguì con finta cattiveria perché spesso gli scappava pure da ridere «Ma tu guarda ‘ste orecchiette. E’ tutto un dire. Nun vojo equivoca’, ma tu pensa che so’ pugliesi e se sposano quasi tutte col genovese. Il pesto co’ le pesti» e rise di gusto solo lui «…e quelli strangola preti? Aaah, se potessi strozzà chi dico io… Basta, sennò m’avveleno er sangue.»
A metà giornata ci fu un momento di calma. Purtroppo non durò molto. A scatenare la rissa fu uno sprovveduto avventore che, senza farlo apposta e senza accorgersene mischiò, sovrapponendole, alcune confezioni: una confezione di cannelloni andò a finire senza volere di nessuno – e la responsabilità non è nemmeno di chi scrive che osservava a distanza – proprio nella cassetta delle confezioni di bucatini. Apriti cielo: « Ahooo, e scanzateve! Nun approfittate perché sembrate ‘n bazzuca» disse risentito. E, per cercare consenso, si girò dalla parte di quelli a… panza piena e, fra questi, incrociò lo sguardo di agnolotti e cappelletti. Approfittò per allargare lo sguardo proprio da quella parte, dove quelli a… panza piena era la pasta più delicata.
«Anvédi oh! c’è stanno puro li pelmeni, che dalla Russia so’ venuti a riscallasse qua? Mo ce pensa l’acqua sur fornello. Quanno è pronna, al punto giusto, ‘na bella notata nun v’a leva nissuno. Anzi, forse ve fanno fà pure quarche sarto mortale a forza de giravve». Ci fu una risata generale per dare soddisfazione a chi aveva fatto quella triste battuta, non sapendo che l’acqua calda, prima o poi, aspetta tutti. Come dire: alla morte non sfugge nessuno. «Oh, ce stanno pe’ tutte le misure e pe’ tutti li gusti – rivolgendosi ai tortelli, tortellini e tortelloni – ‘nzomma, pe’ tutte le bocche… E ce stanno puro li tortellacci, quelli co’ la cocozza ‘nventati dai polentoni de Ferara». Poi, per darsi arie acculturate: «Da ‘n po’ de tempo me tocca véde puro ‘sto cuscusse. Prima era ‘n piatto straniero, mo è quasi diventato de casa nostra insieme a quell’antro, come se chiama, mannaggia cià ‘n nome strano, ah il kebabbe, che con noi nun cià gnente a ccheffà e abbita da ‘nantra parte.»
Il bucatino riflettè: «Però nun me arincréscono ‘sti forestièri, ‘sto pizzico de orientalità.»
Tante ore erano trascorse, la giornata era stata lunga.
Si sentì un rumore di serrande.